di Antonio Bordoni
Sono passati otto anni da quando Air France e Klm diedero il segnale che era possibile un’unione fra due vettori battenti bandiere differenti. Certo non si è trattato di una vera e propria fusione con relativa scomparsa di uno dei due partecipanti, ma è stato senz’altro un primo, importante segnale per un settore ove ormai tutti hanno capito che gli Stati non hanno affatto l’intenzione di far scomparire quella che è stata la propria “compagnia di bandiera” e se per caso, per ragion di cassa, la compagnia viene acquisita continua a volare con il suo nome. Nel gennaio 2011, l’esempio franco-olandese è stato raccolto da spagnoli e inglesi che hanno dato vita all’International Airlines Group (IAG) e quest’anno – non c’è due senza tre – è stata la volta di due vettori sudamericani. Si tratta della cilena LAN e della brasiliana TAM che hanno dato vita a LATAM. Quest’ultimo evento assume un particolare rilievo in quanto è il primo esempio di fusione fra vettori fuori del continente europeo. Anche quando i vettori restano distinti, in ogni fusione c’è tuttavia un capofila ed in questo caso è la cilena LAN che ha fatto la parte del primo attore nei confronti del vettore brasiliano. È fuori dubbio che i precedenti casi AF/KL e BA/IB hanno giocato un ruolo decisivo nella decisione che ha visto i due vettori sud americani unirsi sotto la solita forma della holding company permettendo a ciascuno di continuare a volare con il proprio nome.
Queste pseudo unioni vengono accolte favorevolmente dagli analisti, i quali vedono solo l’aspetto dei risparmi che possono portare ai bilanci dei partecipanti. La conclusione è però ben diversa se vista dall’ottica del consumatore, in quanto è facile concludere che due vettori che prima si contendevano il traffico ora non si faranno più concorrenza. E persiste il dubbio che in molti casi la fusione possa essere l’unica soluzione che un vettore ha per rimanere vivo. Ne sa qualcosa il mercato statunitense che (dopo aver visto negli anni sparire TWA, Pan American, Aloha, ATA, Braniff, Midwest etc) ha sperimentato una concentrazione senza precedenti con la Continental che è ora United, Northwest assorbita da Delta, AirTran passata sotto Southwest e con ogni probabilità il prossimo passaggio di American sotto US Airways.
Continuando con questo ritmo è indubbio che ogni continente si troverà con pochi megavettori. In quel momento, come è già avvenuto per gli istituti bancari o le case automobilistiche, forse anche per queste mega-aerolinee potrà valere il principio del “too big to fail” .
In questo quadro appare singolare la posizione che sta emergendo in Europa, i cui campioni sono sotto attacco delle emergenti aerolinee del Golfo su due diversi, opposti fronti. Il primo, che potremmo definire “passivo”, vede le compagnie europee cedere quote azionarie ai vettori del Golfo; a tale categoria vanno ricondotte le operazioni che vedono Qatar Airways controllare il 35% del gigante del trasporto merci Cargolux, e la Etihad con il suo controllo del 29,21 di Air Berlin e di Aer Lingus (2,987%). Per meglio comprendere l’evolversi della situazione sarà il caso di ricordare che quando nel dicembre 2011 Etihad ha annunciato la sua entrata nel pacchetto azionario di Air Berlin, che è il secondo vettore tedesco, si è parlato apertamente di “salvataggio dal fallimento”. Tutto ciò avviene, non a caso, quando le stime IATA per l’Europa per il corrente anno 2012 indicano che i vettori europei saranno gli unici ad andare sotto zero come margine operativo.
Il secondo fronte sul quale i vettori europei si stanno dando da fare è quello di cercare di convincere la controparte statunitense ad allentare i vincoli imposti ai vettori Usa sulla proprietà delle loro aerolinee, con l’obiettivo dichiarato di far fronte comune contro l’invasione asiatica (leggasi Cina) e medio-orientale (leggasi Middle East Big Three, MEB3). L’iniziativa è partita dall’ufficio del Commissario UE responsabile ai trasporti Siim Kallas, l’estone che dal febbraio 2010 ricopre la carica all’interno della Commissione Barroso II.
Il segnale non è dei più rassicuranti. Appare evidente che dietro il tentativo vi è la presa d’atto che i vettori europei – anche dopo l’entrata nelle alleanze e la formazione delle holding company – rimangono ancora estremamente fragili e cercano un ulteriore consolidamento. In nostri precedenti interventi abbiamo già evidenziato la palese assurdità della situazione venutasi a creare nella UE, ove le stesse autorità che hanno deregolamentato il mercato aereo in nome di una più accesa concorrenza, ora spingono per megaconcentrazioni vettori, con buona pace della concorrenza. Le più recenti iniziative non fanno che accentuare l’incongruenza della politica adottata.
Parlando di situazioni paradossali, sempre rimanendo nel campo della proprietà, invitiamo a valutare quanto avviene negli USA, ove ancora oggi una compagnia straniera può possedere non più del 25% dei diritti di voto in una aerolinea Usa. La possibilità di cambiare le regole era stato già rispedito al mittente nel 2007 durante le trattative per l’accordo “open skies” USA-UE, ed è assai improbabile che venga riconsiderata oggi che gli USA (e non solo loro, per la verità) si trovano in contenzioso sull’argomento della tassa CO2 unilateralmente imposta dalla UE ai vettori mondiali.
Un’ultima considerazione. Se il Paese che ha ideato e messo in atto la deregolamentazione si trova ancora, oltre trent’anni dopo, con questi paletti sull’azionariato dei propri vettori, forse sarà il caso di chiederci se in Europa, ove la deregulation è stata importata dagli Usa, non si sia spinto troppo l’acceleratore nel permettere ad esempio a un vettore tedesco di acquisire il 100 per cento delle aerolinee che erano nate dalle ceneri della ex compagnia di bandiera belga e della ex compagnia di bandiera svizzera…
(Fonte: Dedalonews)