Aeroporti. Attentato all'”Ataturk”: la Turchia paga per la politica scellerata di Erdogan
Roma, Italia – Accusato da più parti di doppiogiochismo sulla questione siriana, e sempre in bilico fra oriente ed occidente a seconda di come spira il vento

(WAPA) – Quanto accaduto martedì 28 giurno all’aeroporto “Ataturk” di Istambul è senza dubbio la risposta del terrorismo alle scuse avanzate (malvolentieri) dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan al presidente Vladimir Putin, per l’abbattimento (e per la morte del suo pilota) dell’aereo russo Su-24 mentre si trovava in territorio siriano ai confini con la Turchia, lo scorso novembre ad opera di un caccia F-16 dell’aviazione di Ankara. Scuse “Pretese” da Mosca fin da subito (anche perché fino ad allora le due Nazioni “Andavano a braccetto” con intensi vicendevoli scambi di carattere commerciale), ma sempre negate da Erdogan. Il quale a fronte delle conseguenze economiche causate dalla frattura che ne derivò -ricadute pesantemente sulle forniture di gas, grano e riso nonché sui ricchi flussi del turimo russo in terra turca (senza contare la penalizzazione delle imprese turche negli appalti in quel di Russia)-, lunedì 27 giugno ha capitolato, esprimendo il suo rammarico sia alla Nazione che ai familiari del pilota Oleg Peshkov. Vedasi approfindimento di AVIONEWS.
Cosa che non è piaciuta affatto al terrorismo più sanguinario.
L’attentato di martedì scorso, l’ultimo anello di una lunga catena di morte (il 14° avvenuto in una città turca a partire da giugno 2015, almeno 8 dei quali ad opera dei curdi secondo il “New York Times”), dovuta alla politica sconsiderata del presidente che non ha saputo trovare una giusta via fra le radici profondamente musulmane della Turchia e la sua modernizzazione attraverso l’avvicinamento all’occidente. Di più, Erdogan tentando di risolvere le tensioni etniche interne e di sconfiggere i suoi “Nemici” giurati (fra i quali il siriano Assad ed ovviamente i curdi) ha inanellato una serie di errori strategico-politici che non gli sono stati perdonati.
A partire dalla sua iniziale “Alleanza” coi ribelli siriani contro il regime. Nonostante il suo avvicinamento all’Europa (l’adesione all’Ue è uno degli obiettivi del Paese della Mezzaluna Rossa), ha fornito loro appoggio logistico, basi nel suo territorio e in alcuni casi armi e munizioni; ha stretto patti con estremisti di ogni bandiera nella sua lotta cieca contro i curdi e contro Assad, compreso quel sedicente Stato Islamico, ai cui affiliati ha dato libero transito sul suo territorio in un folle flusso che dall’Europa giungeva fino alla Siria: la cosiddetta “Via della Jihad”.
Poi, come una banderuola stavolta mossa dal vento dell’Occidente ha voltato le spalle al “Califfato Islamico”: ha iniziato una catena di arresti tra le fila dei sospetti simpatizzanti dei gruppi estremisti, ha interrotto il flusso dei reclutati da Daesh e smantellato le reti di reclutamento; intensificato i controlli di frontiera.
Daesh non è rimasto a guardare, e nei suoi attacchi mirati fra i civili ha cercato inizialmente di rinfocolare le tensioni etniche interne alla Turchia andando a colpire soprattutto la comunità curda, che dopo la fragile tregua fra il governo e la milizia indipendentista del Pkk, e dopo la crisi innescata dai bombardamenti delle forze regolari contro le fazioni turche del sud e diversi episodi di guerriglia anche urbana, ha a sua volta reagito con altrettanta violenza sul suolo nazionale. Il Paese si è ritrovato al centro dei fuochi e nel mirino di entrambi: del vecchio “Amico”, e del nemico in casa, i curdi.
Secondo l’analisi del monarca della vicina Giordania Abdullah: “Erdoğan crede che l’islamismo radicale possa essere la soluzione ai problemi della regione”, “Sua la scelta di arrivare a un’escalation del conflitto con i curdi invece di cercare una soluzione pacifica”. E lo ha fatto per un calcolo soprattutto elettorale: vincere le elezioni dello scorso novembre.
“Ciliegina” sulla torta il raggiungimento dell’accordo il 26 giugno scorso che per quanto possibile riavvicina la Turchia ad Israele (alleato storico degli Usa), dopo i sei anni di contenzioso nato dall’ntervento delle forze speciali israeliane contro la nave turca “Mavi Marmara”, che parte di una flotta internazionale composta di sei navi nel 2010 aveva cercato di forzare il blocco imposto da Tel Aviv, per portare aiuti alla Striscia di Gaza, allora sotto embargo europeo. L’azione uccise 9 persone e ne ferì 28 tra gli attivisti filopalestinesi che erano a bordo, mentre la parte israeliana registrò 10 feriti (sulla diatriba vedasi notizia AVIONEWS).
Una distensione che secondo quanto dichiarato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’indomani dell’intesa, porterà enormi benefici per l’economia di entrambi i Paesi, che prima del 2010 erano “Amici” con in comune molteplici interessi sia di carattere economico che politico. (Avionews)
(Cla/Mos)
(Fonte: Avionews.com)